“chiusura partita Iva d’ufficio e presupposti per il riesame del provvedimento”
I casi in cui l’Agenzia delle entrate può chiudere d’ufficio una partita Iva sono stabiliti dall’articolo 35 (commi da 15-bis a 15-quater) del Dpr 633/1972.
Questa norma è stata di recente modificata dalla legge n. 197/2022 (articolo 1, comma 148), che ha previsto una nuova ipotesi al cui verificarsi è possibile per l’Agenzia, a partire dal 1° gennaio 2023, disporre la cessazione d’ufficio della partita Iva.
In particolare, secondo il nuovo comma 15-bis.1 del citato articolo 35, nell’effettuare le specifiche analisi del rischio connesso al rilascio di nuove partite Iva, l’Agenzia può invitare il contribuente a comparire di persona presso l’ufficio per esibire documentazione idonea a verificare l’effettivo esercizio dell’attività e per dimostrare l’assenza dei profili di rischio individuati. Se il contribuente non si presenta, o in caso di esito negativo dei riscontri fatti sui documenti esibiti, l’ufficio emana provvedimento di cessazione della partita Iva e, contestualmente, irroga la sanzione amministrativa di 3.000 euro.
Per effetto, invece, del comma 15-bis.2, ferma restando la disciplina applicabile nelle ipotesi in cui la cessazione della partita Iva comporti l’esclusione della stessa dalla banca dati dei soggetti che effettuano operazioni intracomunitarie, nei casi di cessazione della partita Iva (operata ai sensi dei commi 15-bis e 15-bis.1), lo stesso soggetto può successivamente richiederla solo se presenta polizza fideiussoria o fideiussione bancaria della durata di tre anni dalla data del rilascio e per un importo non inferiore a 50.000 euro. Se le violazioni fiscali sono state commesse prima del provvedimento di cessazione, l’importo della fideiussione deve essere pari alle somme, se superiori a 50.000 euro, dovute a seguito di dette violazioni fiscali, sempre che non sia intervenuto il versamento delle stesse.
Nel caso in cui la partita IVA venga chiusa per effetto dell’art. 35 comma 15-bis.1 del DPR 633/72, non è possibile compensare in modo orizzontale imposte con altri tributi o contributi dal momento in cui viene notificato il provvedimento di esclusione, nel caso in cui l’Ufficio non riceva dal soggetto le informazioni richieste.
Il divieto si applica a prescindere dal tipo e dall’importo dei crediti, anche se non sono maturati con riferimento all’attività esercitata con la partita IVA oggetto del provvedimento e rimane fino a quando la partita IVA risulti cessata (art. 17 comma 2-quater del D.lgs. 241/97).
Se il soggetto procede comunque con l’utilizzo di un credito in compensazione, nonostante il divieto imposto, lo scarto del modello F24 viene comunicato tramite i servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate al soggetto che ha trasmesso il modello (art. 17 comma 2-sexies del D.lgs. 241/97).
Il soggetto passivo che si è visto notificare il provvedimento di cessazione della partita IVA sulla base di specifici elementi di rischio deve comparire di “persona” presso l’Ufficio al fine di esibire le proprie scritture contabili o altra documentazione.
Nello specifico, per dimostrare l’assenza dei profili di rischio contestati, deve fornire prova del possesso dei requisiti richiesti dagli artt. 4 e 5 del DPR 633/72 e del regolare esercizio dell’attività d’impresa, arte o professione.
Se il soggetto non si presenta o se quanto risulta dalla documentazione non è sufficiente, oltre al provvedimento di cessazione della partita IVA e al divieto di compensazione, l’Agenzia delle Entrate irroga una sanzione pari a 3.000 euro, ai sensi dell’art. 11 comma 7-quater del D.lgs. 471/97, senza possibilità di applicare il c.d. “cumulo giuridico”.
Alla luce di quanto esposto potrebbero verificarsi due ipotesi:
- Cessazione d’ufficio della partita iva, in ipotesi che la documentazione presentata in seguito all’invito a comparire di persona, non sia stata esausitva
- Cessazione d’ufficio in seguito alla mancata presentazione del contribuente all’invito a comparire.
In entrambi i casi, la legge permette le forme di reclamo (autotutela) e/o ricorso.
Riteniamo ovviamente che nella prima ipotesi per poter aver un provvedimento di annullamento in autotutela da parte dell’ Ade, occorre della documentazione integrativa che la stessa Ade, non abbia preso in considerazione ai fini dei requisiti dell’art 4 e 5 DPR 633/1972 e del requisito del “regolare esercizio dell’attività di impresa, arte o professione”.
Nel secondo caso, invece la documentazione che il contribuente dovrà allegare in sede di autotutela o ricorso, dovrà necessariamente essere quella richiesta in sede di invito e quella ritenuta dal contribuente a dimostrare i requisiti richiesti.
In questo contesto infine risulta interessante comprendere, l’ipotesi, in cui la stessa impresa eserciti diverse attività, di cui solo una di questa venga considerata “pericolosa”.
In tale caso , non si ritiene legittimo da parte dell’Ade , cessare ogni attività, in quanto se è pur vero che il comma 15 bis parla di “cessazione della partita iva”, lo stesso articolo al comma 2 individua “l’inizio attività, tipo e oggetto dell’attività” che in tal caso possono essere molteplici e solo una oggetto di attenzione da parte dell’ Ade per mancanza dei requisiti richiesti.
In questo caso la “cessazione d’ufficio della partita iva” anziché esclusivamente dell’attività “pericolosa”, potrebbe essere un eccessivo provvedimento in relazione alle conseguenze che la chiusura di tutte le attività comporterebbe anche sull’aspetto occupazionale e commerciale.